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ventisettesima puntata

(fine)

di Pasquale Panella

Fatto sta che alla fine di una qualche puntata precedente lei entrò, e stiamo ancora là. È romanzo anche Chandler, che scrive storie di investigazione, tipo deciso e sbrigativo, sa come ci si comporta nella vita scritta, la conosce come se fosse vera; basta e avanza. Roberto Longhi, non da meno, mi pare che ponesse in testa a tutto “la disciplina del conoscitore”. 

L’apparizione della figura femminile in un romanzo, la bella figura, l’inattesa visita della bellezza nello scrivere è tutta là. Bussa o non bussa, è annunciata o no, lei entra, fatale (nel senso del fato, non del biondo o del tizianesco o del corvino). Anche quando è lui che va a incontrarla previo appuntamento è sempre lei che appare, che viene dall’altro mondo a fare la sua figura romanzesca. C’è chi direbbe che è eccessivo, eccedente al ribasso, mettere così la cosa. Eccesso per eccesso, fammelo dire come in un romanzetto: “ma non è così che accade nella vita?”. L’espressione è antiquata e un po’ stantia, certo. Non è antico anche il romanzo? Anche la vita, credo. Voglio forse suggerire che il romanzo sia una forma di vita e, ovviamente al contrario, che la vita sia una forma di romanzo, scrivere una stupidaggine del genere, svolgere un temino da convegno, da costoso catalogo di sprechi di colore in mostra.

Ma le cose, ecco: le cose, come stanno le cose? Sto prendendo tempo, sto perdendo tempo, sono alla ricerca del tempo da perdere.

Me ne accorgo da me, rileggendomi. Capisco la perplessità lì al giornale, il giornale che accoglie, accoglieva, questo romanzo a puntate, pagine che mi somigliavano, nelle quali mi muovevo come le parole che avevo scritto, svagato, forse sperduto. Ma sì, divagando come un foglio di giornale al vento. Giornate ventose nella mia testa, infatti. L’ultima puntata rimasta in aria, non pubblicata, non scendeva con le zampe a terra, anzi saliva verso la rarefazione degli strati alti, nei quali il fumoso testo diradava e poi spariva. Parlavo di bellezza, infatti. Se ti capita nella vita (dove sennò?) di vedere il viso femminile bellissimo allora capisci che non esiste bellezza altrove né in natura né nell’arte (il cui fine, come è noto, non è infatti apparire in sfoggio di bellezza se non sguaiatamente come vignetta naturale o artificiale). Avevo visto quel viso.  

Possibile che non me ne fossi accorto che non era pubblicabile, la puntata 25? (Ambisce forse diventare un titolo? La puntata 25.)

A un certo punto il dubbio mi è venuto, però. Continuava il silenzio del giornale. Ho fatto una cosa che non ho mai fatto, ho riletto la puntata che avevo inviato, ho capito il silenzio. Tutto ben scritto, certo, ma c’era da chiedersi se io ne fossi al corrente o se avessi davvero scritto io quelle pagine nelle quali l’autore è colto nel momento in cui sta confessando, senza rendersene conto, di essere diventato cretino, lo stupido insensato che guarda in cielo le parole volare, magari anche stampate come piumaggio sulle ali delle pagine (sto ancora usando queste meticolose e insulse figure?). Ho scritto allora due righe al giornale: sollevavo tutti dall’imbarazzo di comunicarmi le ragioni della mancata pubblicazione, comprendevo il loro silenzio. Condividevo la linea del giornale, al loro silenzio avrei fatto seguire il mio. La notizia che ero rincretinito non sarebbe apparsa. Ecco fatto.

Questa è la fine del Romanzo in corso. Romanzo? No, questo non è il romanzo, questo è soltanto il prologo. All’inizio ho scritto (mi pare di averlo scritto) che il romanzo ha un titolo che non è questo, so quale, non è questo (ho una curiosa lucidità, che direi scintillante e ripetitiva, ho nella testa come degli acciarini che scattano, mi pare). 

So come inizia il romanzo, inizia da qui, dalla fine del prologo. Allora inizierò da questa fine.

E il suo bel viso? Allora non ci siamo capiti. Il viso è indescrivibile, se non come vignetta, caricatura, in accentuazione, in mancanza, in alterazione, in contraffazione insomma. Un bel viso descritto non l’ho mai visto, forse nemmeno letto. Anzi, a leggerli i bei visi descritti mi sono sempre parsi un po’ mostruosi: va detto che molte descrizioni, non solo di visi, hanno anticipato di secoli il cubismo e anche l’astrattismo e l’informale. Non è questione solo di bellezza ma di dubbi sullo scrivere, e allora fermiamoci qui che è meglio.

“So di non avere tempo, so di non avere niente, sto bene, so che devo scrivere e non mi va di scrivere”, prima di cominciare scrisse questa frase. Aveva sedici anni e cominciò a rimandare. Insomma, cominciò.

ventiseiesima puntata

di Pasquale Panella

Basta, taglia tutto, vediamo di chiudere (raccogli a parte tutti i tagli, li pubblicherai in appendice a Romanzo in corso – un prologo)

Qui facciamo che basta. 

Non basta ancora? C’è dell’altro?

Cosa mi ricorda questa espressione? Mi ricorda “vuole altro?”, al tempo in cui arrivavo con gli occhi giusto giusto all’altezza del bendiddio in mostra. 

Quando tutto era esposto sul piano spirituale, sul piano affettivo, insomma sul piano pratico, là, sul piano, sul banco del pizzicagnolo. Già questa parola, pizzicagnolo, già l’insegna, pizzicheria, ecco che subito prude la fragranza del pepe appena macinato e fa il solletico all’aria, si spande l’aroma più che floreale dei salami, i petali delle fette, il prosciutto fluttuante appena dopo il giro dell’affettatrice, l’effluvio rosa della mortadella, alici nell’olio come nel mare, anche aringhe d’oro, anche alici nel sale, estratte con uno stecco come strisce d’onice da un muro luccicante di quarzo, l’ambra dei tonni da sfaldare nei barilotti rotondi di latta, mammelle e mammelline di latticini, i cacicavalli taurini (ma cos’è, una didascalia dalla Salomè di Wilde?). E il pecorino? Quel solletico d’unghia sotto il naso. So di che parlo: della mia maestrina in terza elementare, quell’unghia lunga e rossa. Lei non poteva farne a meno, durante la ricreazione si avvicinava, si accovacciava davanti a me, si sedeva sui suoi tacchi alti, sentivo (sento ancora), come fossimo su un veliero (era nelle sue intenzioni prendere il mare?), lo stiramento delle sue calze che stridevano come cime tese, sollevava la sua mano verso il mio naso. Sottocchio e fuori fuoco vedevo, e vedo ancora, assolvere un mazzetto di rose in boccio (per non dire come le cose stanno, siamo capaci di buttarle in poesia ovvero nel cestino dei versetti accartocciati). Il suo dito si elevava sugli altri e sul dito s’elevava quella fiamma smaltata fin sotto il mio naso a farmi il solletico. Quale dito? Sono incerto tra l’indice e il medio. Vidi qualche volta anche la punta della sua lingua sporgere dalle labbra strette intorno, segno certo di impegno e di concentrazione. Perché mi faceva il solletico sotto il naso? 

Il pecorino, dicevo. Appunto, come si dice? Mi pare che si dica “pungente”, l’aroma. Più che l’aroma l’assalto, l’assalto acuminato del pecorino alle nari, quell’aroma dalle punte aguzze. Gli odori svegli, allertati come sentinelle sarcastiche e acute, in pizzicheria, che ti punzecchiano con le loro picche. 

Mi sono distratto, inebriato. Stavo dicendo (fammi ripetere la frase, faccio prima, ché se devo riassumerla mi si allunga chissà fino a dove e fino a quando; ti pareva che Pinocchio non ci mettesse il naso), dicevo, ripeto, che i sentimenti e le comprensioni hanno un peso e una forma. Ecco qua il peso, ecco la forma: quei tronchi di cioccolata dal pizzicagnolo, con la carta dorata attorno e anche argentata, con dentro le noccioline a pezzi oppure a due colori. Davvero riproducevano quel disegnino cinese, yin e yang, la dualità, crema e cioccolato, o è una mia illazione, insinuazione beffarda? Ma anche la lonza, tagliata a fette spesse, e i formaggi col coltello alto, e quelle strisce di guanciale, i bei tocchi. C’entrava forse anche il tatto, l’effetto pittorico, il violino delle lame, le pallide e rosee dita norcine, c’entrava Lubitsch, il tocco di classe, la maestrina dalla guglia rossa? Non so. L’infanzia a questo serve: a preparare le domande per il dopo.

romanzo in corso

(un prologo)

di Pasquale Panella

venticinquesima puntata

di Pasquale Panella

“Perché non vai avanti?” mi chiede.

Davvero, perché non vado avanti? 

Ho quel momento, non so come definirlo, con quale parola, non so nemmeno se la parola c’è (le parole, più ne abbiamo bisogno più loro hanno bisogno di altre parole per essere dette, approfittano di noi che, fessi, scioriniamo parole per accontentarle, queste parole parassite, delle quali noi siamo soltanto un disgorgo). Quel momento torpido, incantato ma da niente, appeso al fumo, ammaliato dall’eventualità che nulla accada, che nulla mi tocchi, comprendendo nel nulla soprattutto le persone. Quel momento labile. 

Devo dirlo, devo dire questa cosa nella quale sono assorto? Questa cosa rovinosa. Questa cosa: la bellezza non è nelle offerte appariscenti della natura né nelle maniacali apparenti prodezze dell’arte. La bellezza è nella bellezza femminile. Non c’è bisogno che mi si trafigga per averlo detto. Averlo detto è già una trafittura. Basta averla presente, la bellezza, e già questo presente è un’arma da punta contro il pallone gonfiato delle mie espressioni. Come mai è possibile averla presente? La bellezza del viso, per limitarci a questa infinità. Non parliamo poi della moltiplica esorbitante attivata dal malleolo, dal ginocchio, dal gomito, e stiamo parlando d’ossa. Ecco, quest’ossa, come parti di un macchinario chissà quale, avviano a vista il loro meccanismo, la loro meccanica di precisione e accrescono la bellezza di intensità, di numero, di quantità, (come è riportato dai vocabolari, che si spingono fino al pettegolezzo) e tu la perdi e non l’afferri più. Perché cos’è alla fine la bellezza di un viso femminile, anche se non ancora moltiplicata dal lavoro della clavicola (e non parliamo del lavoro dei tendini: quelle stecche di ventaglio sul dorso del piede), cos’è alla fine? È che non c’è una fine, una comprensione finale non c’è. Questa bellezza è che non sai cos’è questa bellezza. Non t’è presente, tu non sei il suo tempo (e intanto preghi che per essa il tempo non passi), guardi quel viso e non ti raccapezzi dove mai sia quel viso che è davanti a te. Ti distrae da te, soprattutto dal goderla. Nulla è incomprensibile quanto la bellezza (al secondo posto: la nudità). 

(Se il romanzo fosse un luogo turistico, forse lo è, la Guida direbbe: “Qui si capisce benissimo che l’autore parla di un viso preciso, uno solo, e lui solo sa quale, e lei che ha quel viso, anche lei, sa.”)

Quarto Foglio

QUARTO FOGLIO. Autore: Pasquale Panella. Anno: 2022. Isbn: 9791280095206 (epub) e 9791280095213 (pdf)

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Quarto dei quattro volumi che raccolgono i Monologhi scritti per Il Foglio Quotidiano dal 1998 al 2004. All’interno “L’Artificio dei Fuochi” e “I Vangeli Secondi”. “Considero quei tempi bei tempi per la stampa”.

Terzo Foglio

TERZO FOGLIO. Autore: Pasquale Panella. Anno: 2022. Isbn: 9791280095183 (epub) e 9791280095190 (pdf)

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Terzo dei quattro volumi che raccolgono i Monologhi scritti per Il Foglio Quotidiano dal 1998 al 2004. “Considero quei tempi bei tempi per la stampa”.

Naso e Più

NASO E PIÙ. Autore: Pasquale Panella. Anno: 2022. Isbn: 9791280095169 (epub) e 9791280095176 (pdf)

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È la pubblicazione digitale di NASO (già pubblicato in cartaceo da Fefè Editore), raddoppiato con l’aggiunta di E PIÙ (starnuti, soffiate, pettegolezzi, schiamazzi, ciarle, dicerie, mezze voci, voci intere, voci interne, cose dette e cose non dette, postille, posta ricevuta, posta inviata, bigliettini, versetti, altro…)

Mi Chiamo Arianna

MI CHIAMO ARIANNA. Autore: Pasquale Panella. Anno: 2021. Isbn: 9791280095145 (epub) e 9791280095152 (pdf)

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Può essere che Euridice non sia il suo nome se il suo nome è Arianna. Può essere che Caronte non sia veramente il suo nome (suo di chi?). Può essere che Orfeo non sia veramente il mio nome (il suo, il suo).

Secondo Foglio

SECONDO FOGLIO. Autore: Pasquale Panella. Anno: 2021. Isbn: 9791280095114 (epub) e 9791280095121 (pdf)

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Secondo dei quattro volumi che raccolgono i Monologhi scritti per Il Foglio Quotidiano dal 1998 al 2004. All’interno SAVARIN SADE e ALLA LUCE DEL SOLE. “Considero quei tempi bei tempi per la stampa”.

Primo Foglio

PRIMO FOGLIO. Autore: Pasquale Panella. Anno: 2021. Isbn: 9791280095091 (epub) e 9791280095107 (pdf)

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Primo dei quattro volumi che raccolgono i Monologhi scritti per Il Foglio Quotidiano dal 1998 al 2004. “Considero quei tempi bei tempi per la stampa”.