di Pasquale Panella
Basta, taglia tutto, vediamo di chiudere (raccogli a parte tutti i tagli, li pubblicherai in appendice a Romanzo in corso – un prologo).
Qui facciamo che basta.
Non basta ancora? C’è dell’altro?
Cosa mi ricorda questa espressione? Mi ricorda “vuole altro?”, al tempo in cui arrivavo con gli occhi giusto giusto all’altezza del bendiddio in mostra.
Quando tutto era esposto sul piano spirituale, sul piano affettivo, insomma sul piano pratico, là, sul piano, sul banco del pizzicagnolo. Già questa parola, pizzicagnolo, già l’insegna, pizzicheria, ecco che subito prude la fragranza del pepe appena macinato e fa il solletico all’aria, si spande l’aroma più che floreale dei salami, i petali delle fette, il prosciutto fluttuante appena dopo il giro dell’affettatrice, l’effluvio rosa della mortadella, alici nell’olio come nel mare, anche aringhe d’oro, anche alici nel sale, estratte con uno stecco come strisce d’onice da un muro luccicante di quarzo, l’ambra dei tonni da sfaldare nei barilotti rotondi di latta, mammelle e mammelline di latticini, i cacicavalli taurini (ma cos’è, una didascalia dalla Salomè di Wilde?). E il pecorino? Quel solletico d’unghia sotto il naso. So di che parlo: della mia maestrina in terza elementare, quell’unghia lunga e rossa. Lei non poteva farne a meno, durante la ricreazione si avvicinava, si accovacciava davanti a me, si sedeva sui suoi tacchi alti, sentivo (sento ancora), come fossimo su un veliero (era nelle sue intenzioni prendere il mare?), lo stiramento delle sue calze che stridevano come cime tese, sollevava la sua mano verso il mio naso. Sottocchio e fuori fuoco vedevo, e vedo ancora, assolvere un mazzetto di rose in boccio (per non dire come le cose stanno, siamo capaci di buttarle in poesia ovvero nel cestino dei versetti accartocciati). Il suo dito si elevava sugli altri e sul dito s’elevava quella fiamma smaltata fin sotto il mio naso a farmi il solletico. Quale dito? Sono incerto tra l’indice e il medio. Vidi qualche volta anche la punta della sua lingua sporgere dalle labbra strette intorno, segno certo di impegno e di concentrazione. Perché mi faceva il solletico sotto il naso?
Il pecorino, dicevo. Appunto, come si dice? Mi pare che si dica “pungente”, l’aroma. Più che l’aroma l’assalto, l’assalto acuminato del pecorino alle nari, quell’aroma dalle punte aguzze. Gli odori svegli, allertati come sentinelle sarcastiche e acute, in pizzicheria, che ti punzecchiano con le loro picche.
Mi sono distratto, inebriato. Stavo dicendo (fammi ripetere la frase, faccio prima, ché se devo riassumerla mi si allunga chissà fino a dove e fino a quando; ti pareva che Pinocchio non ci mettesse il naso), dicevo, ripeto, che i sentimenti e le comprensioni hanno un peso e una forma. Ecco qua il peso, ecco la forma: quei tronchi di cioccolata dal pizzicagnolo, con la carta dorata attorno e anche argentata, con dentro le noccioline a pezzi oppure a due colori. Davvero riproducevano quel disegnino cinese, yin e yang, la dualità, crema e cioccolato, o è una mia illazione, insinuazione beffarda? Ma anche la lonza, tagliata a fette spesse, e i formaggi col coltello alto, e quelle strisce di guanciale, i bei tocchi. C’entrava forse anche il tatto, l’effetto pittorico, il violino delle lame, le pallide e rosee dita norcine, c’entrava Lubitsch, il tocco di classe, la maestrina dalla guglia rossa? Non so. L’infanzia a questo serve: a preparare le domande per il dopo.